La vitalità dell’Ecosistema, tra bit, luoghi e progettualità
Ho avuto il piacere di partecipare all’evento annuale SMACT “Open Innovation: la sfida per l’evoluzione delle imprese” che ha ospitato anche un “bilancio” di fine mandato del presidente Guglielmi, relativo all’ultimo triennio.
Qualche riflessione di seguito “in soggettiva” che combina i dati istituzionali e organizzativi con quello che ho compreso dopo un anno di collaborazione con SMACT.
Innanzitutto si ricava la sensazione di un ecosistema vitale, dato confermato da numeri oggettivi: SMACT ha chiuso il 2024 con ricavi pari a 10 milioni di euro, di cui 1,4 milioni derivanti da contributi erogati dal MiMIT, triplicando così i 3 milioni registrati nel 2021, anno in di subentro dell’attuale governance. Sono positivi anche i risultati in termini di redditività, con un Ebitda caratteristico che si attesta a 1,5 milioni di euro.
Sorprendente l’evoluzione organizzativa che ha visto crescere rapidamente il numero dei collaboratori, parallelamente all’impegno di configurarsi in modo sempre più strutturato anche nella gestione delle Risorse e del proprio capitale umano. Si tratta di un ecosistema caratterizzato anche di una rilevante “biodiversità disciplinare” a partire dallo staff: ho avuto il piacere di conoscere collaboratori che provengono da percorsi formativi sofisticati e differenziati, ad esempio nell’ambito della fisica, della biologia, della filosofia, dell’economia, in grado di completare la prospettiva ingegneristica di altri colleghi, collaborando sui progetti di sviluppo tecnologico e formazione a favore delle aziende.
L’ecosistema ha inoltre sfaccettature interessanti perché controintuitive rispetto ad alcuni stereotipi. Il primo riguarda la rappresentazione che il sistema economico, produttivo e istituzionale del nordest ha di sé, a partire dall’annosa questione del “saper fare sistema”.
SMACT costituisce, mi sembra, una risposta (unica nel panorama nazionale) che combina l’ampiezza del territorio su cui opera (tre regioni) con una governance plurale e ampia che tiene conto del peculiare modo di fare impresa, ricerca e innovazione di questo tessuto socio-economico. In altri termini si tratta di un’istituzione che accoglie la complessità di un contesto policefalo integrando in una rete flessibile numerosi Centri di ricerca e Università, oltre ad una varietà di luoghi fisici.
I luoghi e gli spazi in cui si dispiega l’attività di SMACT ci portano ad una seconda dimensione controintuitiva: la forza delle molecole nell’era dei bit. Un aspetto rilevante in questo senso è la presenza delle Live demo: luoghi fisici, distribuiti nelle tre regioni, dove si possono vedere in funzione tecnologie digitali applicate a specifici processi, in una logica tematica che vede ad esempio la sede di Padova abbinata ai processi di produzione alimentare e altre Live demo focalizzate sulla robotica o sul Digital twin. Ognuno di questi contesti risponde alla dimensione divulgativa e formativa che caratterizza il progetto nazionale dei Competence Center e dà corpo alle tre parole chiave di SMACT “Osserva, impara, fai”. Sono luoghi ispirativi perché mostrano plasticamente il legame tra ciò che accade fisicamente (la produzione del pane, l’assemblaggio di oggetti, specifiche lavorazioni) e la rappresentazione digitale (oltre che il governo) di questi processi. Ogni contesto incarna nel tempo una sorta di “genius loci cognitivo” (in certi casi collegato a strutture universitarie preesistenti), in cui queste vocazioni disciplinari, tecnologiche e applicative si stratificano in un insieme sempre più ricco e solido di progetti aziendali concreti e di relazioni. I progetti formativi e di trasferimento tecnologico già svolti rappresentano per il management e gli imprenditori che si accostano alla digitalizzazione, delle esperienze-guida in grado, per analogia, di aumentare la percezione della percorribilità della transizione digitale.
Un secondo aspetto che ho colto in quest’anno di SMACT riguardo alla rilevanza delle molecole, ha per sfondo il punto di incontro tra il digitale e il fisico nei progetti di innvazione. C’è un incontro affascinante tra i portatori di competenze digitali e matematiche (ad esempio i data scientist che operano nei tech provider) e i tecnici del mondo manifatturiero, esperti “di dominio”. E’ un incontro (agevolato da SMACT attraverso processi di analisi, scouting e co-progettazione) tra linguaggi e “mappe cognitive” diversissimi che convergono nel lavoro della modellizzazione ad esempio dei movimenti del saldatore, del taglio del marmo, della vinificazione. La digitalizzazione “esalta” il saper fare manifattura, nel senso che valorizza il know-how di dominio e aiuta in questo senso a rendere esplicita la cosiddetta conoscenza tacita.
Una terza dimensione che ho trovato controintuitiva e interessante riguarda il confronto tra il tema della digitalizzazione e la classica questione dimensionale su cui economisti aziendali e industriali dibattono da decenni. Anche la digitalizzazione, come ha ricordato nel corso dell’evento Eleonora Di Maria, genera uno spartiacque che tuttora correla statisticamente con le differenze dimensionali. Le imprese più grandi possono beneficiare di alcune economie di scala e di capacità di investimento maggiori in questo ambito. Anche il 64% delle micro-piccole imprese ha tuttavia investito sulla digitalizzazione, adottando almeno una tecnologia 4.0, in una fase in cui tendenzialmente si riducono i costi dell’adozione di alcune tecnologie. La testimonianza di un imprenditore come Comunian, titolare di una PMI che ha digitalizzato il processo distributivo e dell’imprenditrice Nicole Tassotti, oltre ad altri progetti sviluppati da SMACT a favore di imprese piccole e medie confermano che iniziative anche tecnologicamente sofisticate non sono appannaggio delle sole grandi imprese.
Potremmo dire, con il rischio di essere un po’ semplicistici, che si può essere (digitalmente) più grandi senza essere più grossi. Un ostacolo potenzialmente rilevante nel percorso che porta a diventare competitivamente più grandi è piuttosto di natura “cognitiva” e sta nella possibilità di reperire (o giustificare in termini di costi fissi) risorse altamente specializzate per gestire “in proprio” progetti di innovazione. In questa direzione, il ruolo degli ecosistemi può rappresentare un contributo significativo: la formazione per le imprese può elevare la consapevolezza digitale della committenza, mentre i progetti di open innovation, condotti attraverso il ricorso guidato a tech provider e ad attori universitari dell’ecosistema, possono rappresentare un supporto “leggero” e “digeribile” all’innovazione nelle PMI.