La retention ai raggi X (…e Y)

E’ da poco iniziato il Laboratorio che ho costruito per Niuko sui temi dell’Attraction e della Retention. Il primo incontro ha visto una ricca (e franca) discussione tra HR (e non solo, vista l’interessante presenza di figure con profili di marketing e imprenditoriali). 
Tra i temi che abbiamo toccato in questo scambio di punti di vista compare anche quello dell’evoluzione della cultura organizzativa, che mi stimola riflessioni ulteriori. L’interrogativo che percorre tutti gli incontri è la tipica domanda semplice che ha risposte complesse e molteplici: quali fattori contribuiscono all’attraction e alla retention, ovvero a far sì che l’azienda sia un luogo dove “è bello (andare a) lavorare”? L’assunto è che ci sia un rapporto significativo e sinergico (e anche in questo caso articolato, ma fondato su ampia letteratura) tra questi fattori ed il funzionamento efficace dell’impresa. 

A beneficio dei partecipanti, premetto che questi appunti non svelano nulla di quanto emergerà a partire dal secondo incontro: la suspence è infatti un motore di apprendimento di grande rilevanza e d’altro canto il “bello” del laboratorio è che sono i dialoghi tra partecipanti a co-costruirlo. 
Aggiungo quindi un elemento che rappresenta un punto di osservazione ulteriore sul tema e che si rifà ad un cavallo di battaglia dei formatori che è passato indenne dai lucidi in acetato di vinile alle più pirotecniche animazioni AI di oggi. Mi riferisco alla famosa Teoria X-Y dello psico-sociologo Douglas Mc Gregor, che pur essendo un po’ schematica nell’affrontare il tema della motivazione, ha il vantaggio di essere didatticamente molto chiara.  Il concetto risale al 1960, anno in cui viene pubblicato il suo The Human Side of Enterprise. Tempi in cui da queste parti tirava un’aria un po’ diversa da quella di Harvard: all’inizio del tumultuoso sviluppo del Nordest e dell’edificazione della piramide di Maslow, si narra che qualche caporeparto ricorresse talvolta a schiaffi, non solo morali, per motivare i collaboratori (oggi per fortuna si arrossisce per motivi diversi). 

La Teoria X identifica in sostanza un modo direttivo di gestire i collaboratori che arriva dritto dall’Organizzazione scientifica del lavoro e si basa su assunti più o meno impliciti sulla “natura umana”.  L’ottica taylorista considera le persone come prive di ambizioni e di un interesse intrinseco per il lavoro. Questo si collega alla presunta ritrosia nell’assumersi qualsiasi responsabilità e al bisogno di essere spinti e guidati continuamente. La supposta immaturità  e inaffidabilità si abbina quindi ad un orientamento al controllo serrato e alle sanzioni da parte del management.  
Come si può intuire, la Teoria Y fornisce una rappresentazione quasi speculare alla precedente: le persone considerano il lavoro una parte significativa dell’esistenza, possono essere creative e fornire autonomamente un contributo ricco all’organizzazione, in una cornice di motivazione positiva e di “senso” nei contenuti del lavoro.     

Nel pervenire alla teoria Y, l’autore formula un passaggio importante che la rende in qualche misura “contemporanea” (e che richiederebbe l’autorevolezza di un lieto neo-sindaco friulano per essere spiegata compiutamente).  L’assunto manageriale basato sulla Teoria X rappresenta un mindset che rischia di cristallizzarsi nel tempo, trasformandosi in componente della cultura organizzativa, attraverso una profezia che si auto-avvera. Nelle logiche della complessità dei sistemi, in altre parole, lo sguardo arcigno del management rischia di diventare “lo stile della casa” che alimenta nei collaboratori quei comportamenti sub-ottimali (anche in termini di performance) che vorrebbe evitare. 

Si potrebbe aggiungere che la Teoria X -Y si abbina a “mappe X o Y”, ovvero rappresentazioni dell’organizzazione più o meno funzionali a realizzare una relazione il più possibile virtuosa tra benessere organizzativo e performance. Senza scomodare Gareth Morgan e le sue Metafore, se si considera l’organizzazione alla stregua di un (complicato, non complesso) sistema meccanico, si rischia di immaginare un manager rigidamente seduto alla guida mentre stringe con forza il volante, confidando nella precisione dello sterzo e nel rapporto lineare tra pressione sull’acceleratore e regime di giri del motore.
Vi sono per fortuna oggi mappe più “ariose” (e complesse ma non troppo complicate) che possono rappresentare organizzazioni in grado di evolvere, di apprendere, di cambiare. Vi sono inoltre evoluzioni più sofisticate dell’intuizione originaria della Teoria Y, che passano ad esempio per concetti quali il benessere organizzativo, la sicurezza psicologica o il purpose e per concetti antichi come la fiducia.
La buona notizia è dunque che esiste un’ampia gamma di strumenti di change management in grado di alimentare con pazienza il circolo della tras-formazione, passando per la fiducia che alimenta l’affidabilità e per il riconoscimento reciproco tra gli attori organizzativi, nella diversità di ruolo e di prospettiva.     

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